Ho il progetto di un macchinario a forma di imbuto per la bonifica del mare da idrocarburi, fra dieci giorni costituisco una srl per la sua produzione e ho fatto un sogno.
La start-up e l’orientale
Ho dato il mio progetto ad uno scienziato/ricercatore/professore orientale affinché lo esamini e mi dia un parere. Oggi questo “Orientale” è tornato con il suo responso; è arrivato con un aereo militare, in un posto isolato, una specie di landa, e ad attenderlo ci siamo io e un comitato di accoglienza composto da alcune personalità. L’Orientale scende dalla scaletta dell’aereo e si avvicina; è vestito all’occidentale con giacca e cravatta, né casco né altro; ha una espressione dura con un leggero ghigno che vorrebbe essere un sorriso.
Sono meravigliato della situazione e vorrei vederla meglio: allora zummo indietro come con Google Earth e così mi appare il panorama: una landa, con questo aereo tipo U2 (aereo spia che – scopro mentre scrivo – si chiama Dragon Lady e ha nel nome qualcosa a che fare con l’oriente) con tutte le armi staccate dalle ali e ordinate a terra come nelle manifestazioni aeree; c’è un gruppetto di persone, fra cui io stesso, che ricevono l’Orientale. Il colore dominante è l’ocra della sabbia/terra di quella landa.
L’orientale mi rende il business plan del mio progetto e così scopro che ha tolto un dispositivo ausiliario (nella realtà l’ho fatto anche io) e lo ha sostituito con una retina a tappeto rotante.
L’idea mi piace ma noto che mentre io ho fatto tutti bei disegni lui si è limitato a copiare un disegno di una cosa simile giusto per dare l’idea: lui non ha perso tempo a fare un bel disegno.
In un’aula magna c’è tanta gente per una conferenza dell’Orientale; io lo ringrazio per l’apporto dato e faccio l’esempio del dito in cancrena che io non mi taglierei, se fosse il mio, ma che il bravo chirurgo mi taglierebbe per salvarmi la vita.
Fuori dall’aula magna ci sono dei bambini che giocano con una specie di automobile di plastica, grande come una scarpa, nel modo tipico di tenerla col braccio teso sopra un tavolino strusciandola avanti e indietro. L’Orientale e io notiamo con meraviglia che in effetti è un giocattolo del mio progetto; siamo stupiti e vorremo sapere da dove viene, chi l’ha fatto… Ci avviciniamo, lui alla madre dei bambini, con fare goffo e atteggiamento interrogativo, con l’indice alzato ma senza riuscire a parlare; io ai bambini e approfittando di una loro pausa nel gioco afferro il giocattolo e lo capovolgo: è un guscio vuoto con delle ruotine, non contiene né il brevetto né l’idea; ne sono moderatamente sollevato.
Sono a pranzo a casa dell’Orientale; c’è sua moglie e un paio di figli, sono gentili: i bambini giocano educatamente, la moglie è sorridente e lui sempre serio.
La stanza è lunga e stretta, il tavolo, per il lungo, in un angolo; l’Orientale è seduto in fondo, a capo tavola, sollevato rispetto a me e sua moglie; io devo sedermi alla sua sinistra ma dietro alla mia sedia c’è quella di sua moglie che quindi non siede a tavola ma sta alle mie spalle. Lo spazio è stretto e io mi incastro fra il tavolo e la donna, non completamente, rimanendo un po’ inclinato e in una posizione scomoda. Per di più sul tavolo c’è una cosa alta, di forma regolare, che occupa la maggior parte dello spazio alla mia sinistra così che il mio posto è come se fosse uno stretto sportello di un ufficio vecchio stile: da una parte il muro e dall’altra l’ostacolo.
Così son seduto di traverso, incastrato fra il tavolo e la donna e con lui che sta alla mia destra un po’ in alto; i bambini giocano più in là ed è evidente che mangeremo solo lui ed io mentre la moglie no.
Quando mi siedo non mi accorgo della presenza o meno di piatti e portate né mi accorgo di qualcuno che li porti in tavola. La portata è una testa umana uguale alla testa del padrone di casa.
Una testa a testa: una per me una per l’Orientale; una testa glabra, color giallo oro carico, con un aspetto cinese, rubicondo, soddisfatto e tranquillo, posata nel piatto dritta sul collo, con un qualche sughetto alla base. Non fa ribrezzo o schifo ma mi imbarazza.
L’Orientale si volta verso di me e sua moglie guardandoci dall’alto verso il basso e finalmente si apre in un sorriso; dice alla moglie, contento e compiaciuto, “lui è geniale”, riferendosi a me. Anche la moglie, che invece sorride sempre, è contenta e compiaciuta ma non dice una parola.
La pelle della testa viene via come fosse una maschera di silicone, con i fori degli occhi e della bocca; la carne è bianca, della consistenza del petto di pollo, si stacca con la forchetta, a pezzi, facilmente: è buona, saporita, morbida, con un gusto leggero e delicato. Io non avevo mai mangiato carne umana e mi meraviglio di questo sapore così buono e a me gradito ma mangio solo due o tre bocconi, staccati dallo zigomo di sinistra. Non noto se lui mangi o no.
Mi alzo e cammino lungo il tavolo verso una saletta che forse è l’ingresso. C’è un tavolino con su un vassoio di caramelle gommose e colorate, a forma di bambini, mentre i bambini veri dell’Orientale mi giocano intorno educatamente e senza arrecarmi il minimo disturbo.
Nel sogno mi ricordo che quelle caramelle hanno una valenza non apprezzabile, non ricordo più quale ma come se fossero alieni, e per quella ragione in un’altra occasione onirica mi venne dato l’incarico di distruggerne alcune, un po’, e io le distrussi in un modo scientifico ma non mi ricordo né come né chi mi diede quell’incarico. Con una forchetta infilzo con una certa violenza un po’ di queste caramelle e le divoro.
I bambini parlano del nonno con qualcuno ma non si intendono se materno o paterno e allora io suggerisco di ribattezzare i nonni con nonnamà, nonnapà, nonnopà e nonnomà.
Torno verso il mio posto ma mi pare che loro, l’Orientale e sua moglie, non ci siano più; forse sua moglie è dall’altra parte del tavolo, in un’altra stanza che affaccia sul tavolo, come fossimo un una sorta di tavola calda cinese.
I piatti con le teste non ci sono più e al mio posto c’è una coppetta d’argento o di porcellana, piena di cioccolatini incartati con carta metallica lucida, brillante e di tutti i colori.